mercoledì 18 gennaio 2012

CESARE BECCARIA - DEI DELITTI E DELLE PENE

Scritto da : Ebra

BIOGRAFIA

L’autore nasce a Milano da famiglia aristocratica nel 1738. Laureatosi in legge, partecipa alla vita culturale del capoluogo lombardo, tanto da essere ammesso all’Accademia dei Trasformati.
Dal 1760 si interessa di filosofia, grazie allo studio delle idee di Montesquieu (legge “Lettere pisane”) e di Rousseau. Fece parte del cenacolo dei fratelli Pietro ed Alessandro Verri, collaborò alla rivista Il Caffè e contribuì a creare l'Accademia dei fratelli nel 1762, fondata secondo un suo concetto della educazione dei giovani mirante a rispettare i suoi concetti di legalità. Cesare Beccaria pensava che l'uomo acculturato fosse meno incline a commettere delitti.
Dalle discussioni con gli amici Verri gli venne l'impulso di scrivere un libro che spingesse a una riforma in favore dell'umanità più sofferente.
Fu stimolato in particolare da Alessandro Verri, protettore dei carcerati, ad interessarsi alla situazione della giustizia.
Dopo la pubblicazione di alcuni articoli di economia, diede alle stampe (inizialmente anonimo) nel 1764 “Dei delitti e delle pene”, ebbe enorme fortuna in tutta Europa e nel mondo (Thomas Jefferson e i padri fondatori degli Stati Uniti, che la lessero direttamente in italiano, presero spunto per le nuove leggi americane) ed in particolare in Francia, dove incontrò l'apprezzamento entusiastico dei filosofi dell'Encyclopédie, di Voltaire e dei philosophes più prestigiosi che lo tradussero (la versione francese è opera dell'abate filosofo André Morellet, con le note di Denis Diderot) e lo considerarono come un vero e proprio capolavoro. Per molti l'opera fu scritta in realtà da Pietro Verri, che riprese temi simili nelle Osservazioni sulla tortura e pubblicata anonima a Livorno per non incorrere nelle ire del governo austriaco. Lo stile appare diverso da quello del Verri e non vi sono prove certe a proposito: in realtà si può dire che il trattato uscì dal dibattito che animava la rivista Il Caffè dove i fratelli Verri erano gli intellettuali di primo piano.
Beccaria viaggiò poi controvoglia fino a Parigi, e solo dietro l'insistenza dei fratelli Verri e dei filosofi francesi desiderosi di conoscerlo. Fu accolto per breve tempo nella circolo del barone d'Holbach. La sua gelosia per la moglie lontana (giustificata),e il suo carattere ombroso e scostante fece sì che appena possibile tornò a Milano, lasciando solo Alessandro Verri che l'accompagnava, e che invece proseguì il viaggio verso l'Inghilterra. Tornato a Milano non si mosse più, divenne professore di Scienze Camerali (economia politica) e cominciò a progettare una grande opera sulla convivenza umana, mai completata.
Entrato nell'amministrazione austriaca nel 1771, fu nominato membro del Supremo Consiglio dell'Economia, carica che ricoprì per oltre vent'anni, contribuendo alle riforme asburgiche. Fu criticato per questo dagli amici (tra cui Pietro Verri), che gli rimproveravano di essere diventato un burocrate. Morì a Milano il 28 novembre 1794 a causa di un ictus all'età di 56 anni, e fu sepolto nel cimitero di San Gregorio. Pietro Verri nei suoi scritti deplorò il fatto che i milanesi non avessero onorato abbastanza il nome di Cesare Beccaria, che tanta gloria portò alla città, né da vivo né da morto, riflessione valida ancora oggi.
La figlia Giulia, madre di Alessandro Manzoni, subito dopo la morte della madre fu messa in collegio e dimenticata. Il padre non volle più sapere niente di lei per molto tempo e non la considerò mai sua figlia, bensì il frutto di una relazione extraconiugale. Nel 1782 la diede in sposa al conte Pietro Manzoni: il nipote Alessandro nacque nel 1785, ma pare fosse in realtà il figlio di Giovanni Verri, fratello minore di Pietro e Alessandro. Prima della morte di Cesare, Giulia lasciò il conte Manzoni e Milano, andando a vivere a Parigi con il conte Carlo Imbonati, rompendo definitivamente i rapporti col padre.
Secondo alcuni Cesare Beccaria era affiliato alla massoneria ma non risulta dagli elenchi di iscrizione di alcuna loggia italiana.


VICENDA

L'opera collocata in un complesso periodo storico('600-'700) è è prima di tutto una riflessione politica, che presenta il pensiero dell'autore circa la struttura legislativa del suo tempo, è uno dei testi fondamentali dell'illuminismo italiano.
Il motivo di questo scritto è generato dall'evoluzione storica, sociale e culturale di quell'epoca.
Ciò che viene affrontato nell'opera è il problema della legittimità dei governi di punire e con quali metodi, questo è stabilito da un “patto sociale” tra il cittadino e lo Stato dove ogni cittadino rinuncia ad una piccola parte della propria libertà per raggiungere la maggior felicità possibile, garantita a ciascuno dall'azione dello Stato.
Il diritto di punire deriva quindi dalla necessità di difendere la sicurezza comune e il bene universale, le leggi perciò rappresentano le condizioni alle quali gli uomini liberi, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di non poter avere una libertà costante, decisero di unirsi in società.
Strettamente legata alla legge c'è la pena (argomento largamente discusso in questa opera) questa è il danno fisico o morale stabilito dalla legge come conseguenza ad un delitto (“cioè un'azione contraria alle leggi”) le pene hanno quindi lo scopo principale di difendere le leggi e di impedire al colpevole di fare nuovi danni, oltre che di impedire che altri ne compiano a loro volta, quindi non è delle pene l'obbiettivo di tormentare ed affliggere un uomo.
Le leggi non devono essere interpretate, devono essere chiare sufficientemente, in modo che il magistrato abbia il solo compito di applicarle, esse (come prevenzione dei delitti) devono essere chiare, semplici, devono essere difese da tutta la forza della nazione, e che nessuna parte di essa sia impiegata a distruggerle, devono favorire meno le classi degli uomini che gli uomini stessi, ed infine devono essere temute.
L'autore distingue tre tipi di delitti: quelli che danneggiano la società (puniti con la pena più alta), quelli  che ostacolano la sicurezza della vita(puniti con pene adeguate alle leggi), quelli infine che molestano la tranquillità pubblica e privata.
Secondo Beccaria deve assolutamente esserci una giusta proporzione fra delitti e pene, tanto più un'azione è dannosa, tanto più la pena sarà più pesante, studiando la storia si vedranno crescere i disordini coi confini degl'imperi, la spinta verso i delitti aumenta, perciò c'è la necessità di aggravare le pene; inoltre se una pena uguale è destinata a due delitti di diverso danno sociale gli uomini saranno più “liberi” a commettere il maggior delitto, se per loro si dovesse presentare un maggior vantaggio.
 La tortura, pratica molto diffusa nel '600 un po' meno nel '700, è criticata sempre in maniera razionale dall'autore, questa doveva costringere il presunto colpevole a confessare il delitto. Ma poteva incorrere nell'errore più terribile, cioè quello di assolvere il colpevole e di condannare l’innocente. Spesso infatti il colpevole, se dotato di coraggio e di grande resistenza fisica, riusciva a resistere alle torture ; viceversa l’innocente, se fiacco e debole, sotto tortura era portato a pronunciarsi colpevole pur di porre fine al dolore, ma sotto giuramento ritornava a difendere la sua posizione di innocenza.
Viene trattato ampiamente il tema della pena di morte, questa è ritenuta una “guerra contro il cittadino”.
La società esiste come detto precedentemente perché ciascuno di noi ha dato una porzione della propria libertà, potremmo quindi dare a questa società (che abbiamo creato) l'arbitrio di uccidere noi stessi?
Siamo inoltre contro il suicidio e dovremmo dare alla società la possibilità di ucciderci!
Premesso che in un governo ben organizzato è discutibilissimo pensare che la pena di morte sia utile e giusta, questa potrebbe essere ritenuta necessaria solamente in due casi che vengono comunque confutati, il primo nel caso in cui un cittadino anche se imprigionato possa mettere in discussione la sicurezza della nazione, ma come dimostra Beccaria in tempo di pace un reo non è pericoloso se in carcere, pertanto potrebbe essere utile per il secondo motivo: quello di distogliere altri a commettere delitti tramite la sua morte, ma l'autore confuta anche questa ipotesi osservando che anche se in Stati dove non era applicata tale pena ad esempio la repubblica romana o l'impero russo sotto l'imperatrice Elisabetta di Moscovia non dimostrino già l'inefficacia di questo metodo, l'autore riflettendo sulla natura dell'uomo aggiunge che è inutile perché non è l'intensità della pena che fa effetto maggiormente sull'animo della gente, ma piuttosto la sua estensione “perché la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che da un forte ma passeggiero movimento.”
Inoltre Beccaria nota pone un rapporto tra legislatore e delinquente, ovvero: laddove il legislatore è più violento anche il delinquente arriva a gesti estremi, dove invece il legislatore è più razionale e civile anche il delinquente non arriva ad eccessi, dimostrando così l'inutilità della pena di morte.
Dopo aver analizzato una serie di delitti l'autore afferma che: “E' meglio prevenire i delitti che punirli.” è questo il vero scopo dell'opera, i delitti più che puniti dovrebbero essere prevenuti, e per ottenere ciò , la legislazione dovrebbe portare gli uomini al massimo di felicità, al fine di evitare che essi desiderino danneggiare la vita di altri cittadini, i lumi devono accompagnare la libertà cosicché un impostore (che è sempre un non volgare) non riesca a danneggiare un popolo colto, ma il metodo più sicuro è l'educazione, che deve interessare in modo particolare i giovani per deviarli da ciò che è male e guidarli alla virtù.


TEMATICHE

Con quest’opera Cesare Beccaria più che proporre uno schema tecnico per una nuova legislazione penale raccoglie riflessioni generate dalla cultura illuministica in un contesto storico-filosofico ricco di tensioni e contrasti.
E’ in questo periodo storico infatti che la civiltà europea matura una definitiva presa di coscienza di fronte alla questione della giurisdizione penale.
La grande novità dell’opera di Beccaria sta nell’aver rovesciato la prospettiva dell’indagine sulla legittimità dell’azione di uno Stato.
Fino all’Illuminismo lo Stato era preminente e la sua azione assolutamente e sempre legittima, per cui gli uomini abitanti sul territorio di quello Stato erano semplicemente sudditi senza "volontà politica" e senza "capacità decisionale" perché privi di diritto. Questo permetteva al sovrano di poter dire: "lo Stato sono io" o "la legge sono io", e di fronte a lui null’altro poteva esistere se non la sottomissione cieca e passiva di tutte le altre persone.
La prospettiva si sposta dal sovrano alla sovranità che è l’insieme di tutte le piccole porzioni di libertà cedute dagli individui, che non sono più sudditi passivi, ma cittadini protagonisti del vita della collettività e che hanno nelle mani "un diritto" che proviene proprio dalla cessione di una porzione della propria libertà.
In questo senso il libretto di Beccaria rappresentava una novità assoluta e una pericolosità elevata per il potere costituito sia religioso che politico. Ponendosi infatti al di sopra "dei pregiudizi e dei tradizionali rispetti" l'opera metteva in discussione il principio stesso della legittimità del potere assoluto dei sovrani) tanto che il padre vallombrosano Ferdinando Facchinei scrisse un violento opuscolo contro il Beccaria e la sua opera proprio per incarico del governo della Repubblica della Serenissima.L'opera venne messa all'Indice dei libri proibiti nel 1766, a causa della distinzione tra peccato e reato.
Con questo libro Beccaria, proponendo il suo punto di vista interprete delle idee illuministiche, ha potuto diffondere un nuovo pensiero nell’Italia del Settecento, riuscendo di conseguenza ad influenzare le mentalità del suo periodo oltre che a riscuotere un notevole successo tra il pubblico, non solo in Italia, ma in tutta Europa, in Francia soprattutto Voltaire infatti scrive “Commentaire sur le livre Des délits et des peines”,  l'impressione suscitata in Europa dall'opera è dovuta al commento di Voltaire. Il saggio di Voltaire oltre ad essere un commento a Beccaria , è quasi un'operetta a sé stante, ispirata alla lettura del libro italiano. Le riforme in questo campo progrediscono da allora grazie a ciò che Voltaire ebbe a dire della tortura, del castigo, dell'eliminazione di eretici, streghe e colpevoli di lesa maestà, della pena capitale)


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